Dalla consapevolezza del ruolo imprescindibile che giocano gli stimoli provenienti dall’ambiente, comprendiamo in un’ottica applicativa come la teoria neuroscientifica e l’approccio progettuale possano incontrarsi per accompagnare e valorizzare al massimo l’esperienza gastronomica.
Come in ogni attività che fa parte della nostra vita quotidiana, lo spazio costruito rappresenta una “cornice” ricca di potenziale in grado di valorizzare e accompagnare le esigenze (neurofisiologiche, cognitive, emotive, ecc.) degli utenti, piuttosto che svantaggiarle od ostacolarle.
Alla luce della valenza del cibo come stimolo dal potere travolgente per l’essere umano, apprezziamo come nell’ambito della ristorazione, questa “interferenza” dell’ambiente giochi un ruolo ancora più sostanziale.
Come si traduce, nella pratica, questo presupposto?
I ristoranti, o qualsiasi struttura deputata ad accogliere l’esperienza del mangiare, forniscono sul piano più istintivo una fitta serie di informazioni che interferiscono su più livelli, sia su quello delle nostre aspettative iniziali che sulle nostre valutazioni finali. Infatti, l’importanza di questa premessa risiede nel fatto che queste informazioni, di varia natura, lontano dalla nostra consapevolezza, contaminano la nostra percezione dell’intera esperienza, estendendosi all’elaborazione di stimoli che nulla hanno a che vedere con lo spazio in sé (ad esempio, le scelte culinarie dello chef).
Quali sono le informazioni provenienti dallo spazio che condizionano a tal punto la qualità della nostra valutazione complessiva dell’esperienza gastronomica?
A partire dal nostro primo incontro con l’esterno della struttura, si avvia un dialogo tra ciò che cerchiamo e quello che l’esperienza ci propone. Questa corrispondenza si estende a tutta la durata dell’attività: pertanto, dall’ingresso all’interno del ristorante, fino all’effettiva consumazione del pasto, alla sua conclusione e al congedo finale dal ristorante. Ognuno dei settori spaziali che attraversiamo, fino ad approdare al tavolo, entra in risonanza con il nostro corpo, inteso come il veicolo di attese emotive sottili, e molto variabili, lanciate in aria come piccoli aerei di carta colorata. In queste isole percettive, esplorando l’arcipelago, il nostro sistema sensoriale cerca una sensazione di calore, oppure d’energia, di stupore, equilibrio, o di rilassamento. Ogni isola richiede una diversa combinazione architettonica e stilistica, fino alla definizione della mise en place.
A livello percettivo, gli stimoli che integrati contribuiscono a costruire la percezione giungono da tutti i canali sensoriali: visivo, tattile, termico, olfattivo, uditivo, e vestibolare. Tutti i nostri sensori registrano informazioni che, assemblate a livello implicito, richiamano un’emozione. Così, una atmosfera musicale può, per esempio, interferire sul nostro tempo di percorrenza all’interno del ristorante. La scelta cromatica e luminosa del design degli interni può influenzare l’investimento economico che siamo disposti ad effettuare. Il tipo di mise en place può farci percepire una pietanza come più o meno qualitativa. Quel che più conta, è la creazione di una relazione coerente tra le diverse isole percettive, in modo che il processo di consolidamento del sistema emotivo produca in primis la creazione di un’identità, ed infine, quel balletto sociale in grado di rendere memorabile l’esperienza vissuta.
Lo spazio può contribuire, con la qualità dell’offerta culinaria e del personale di sala, a celebrare il cliente insieme al ristorante. Infatti, oggi, grazie alle neuroscienze possiamo misurare la fragilità prodotta dalla mancata sintonia tra le attese emotive investite e l’intreccio delle sensazioni reali vissute.
Articolo di Veronica Giannini e Davide Ruzzon.
Immagine in copertina tratta dal film “Il pranzo di Babette” diretto da Gabriel Axel nel 1987